L’impronta idrica degli alimenti: il caso della carne bovina

L’acqua, oggi,  è una risorsa  talmente preziosa da essere definita da molti ”oro blu”. Pensate che, secondo il primo report sullo stato delle risorse idriche globali dell’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO), circa 3,6 miliardi di persone al mondo hanno difficoltà a reperire l’acqua per un mese all’anno. Entro il 2050, questo numero salirà a oltre 5 miliardi per effetto dell’impatto dei cambiamenti climatici. 

Fondamentale è quindi preservare il più possibile questa risorsa: ad esempio, avete mai pensato che ogni bene che viene prodotto, compresi gli alimenti che portiamo sulla nostra tavola, ha un proprio peso in termini di consumo di acqua?

Si parla tecnicamente di impronta idrica o di water footprint (WFP).

L’impronta idrica

L’impronta idrica misura la quantità di acqua dolce utilizzata in modo diretto e/o indiretto per produrre ciascuno dei beni e servizi che usiamo considerando tutto il loro ciclo di vita.  L’acqua impiegata viene suddivisa in tre categorie: verde, dovuta all’acqua piovana;  blu, acqua delle falde e dei bacini idrogeologici;  grigia, cioè l’acqua necessaria per  diluire gli inquinanti al punto che la qualità delle acque torni sopra determinati standard qualitativi.

Come riportato sul sito del Water Footprint Network (WFN), fondazione no-profit che dal 2008 promuovere la transizione verso un uso sostenibile, equo ed efficiente delle risorse di acqua dolce, una pizza margherita  (725 grammi) ha un’impronta idrica di  1260 litri di acqua (64% verde, 21%blu e il, 15% grigia), una mela (150 grammi) costerebbe invece al pianeta 125 litri (68% green, 16% blue, 15% grey), mentre il latte 1020 litri al chilo  (85% green, 8% blue, 7% grey). E la carne? La water footprit, ad esempio, della carne bovina sarebbe stimata in circa 15.000 litri per kg di prodotto, corrispondenti a 1.500 litri per una fettina da 100 grammi, tanto che si è diffusa mediaticamente la convinzione che fare a meno di questo alimento contribuirebbe a ridurre lo stress idrico del pianeta. Ma le cose stanno veramente così?

Facciamo chiarezza sull’impronta idrica della carne bovina

Come affermato dal CREA (Consiglio per la ricerca in agricoltura  e l’analisi dell’economia agraria) nell’articolo “Carne bovina: facciamo chiarezza su siccità e consumi di acqua”, pubblicato sul portale CreaFuturo: in una dieta equilibrata, la presenza di carne bovina non modificherebbe sostanzialmente la sua impronta idrica.

Prendendo in considerazione l’intero ciclo di vita del prodotto  (Life Cycle Assessment), si evidenzia come “più del 90% dell’acqua necessaria a produrre carne è di tipo verde, cioè acqua che cade sul suolo, che potrebbe in alternativa essere usata o per far crescere rovi o colture destinate ad alimentare bovini o che comunque tornerebbe per evatraspirazione nel ciclo dell’acqua (o ciclo idrologico) e quindi non verrebbe “consumata”. Solo il 5-7% è invece  acqua blu”. Questo vuol dire che per una porzione di carne da 80 grammi si consumano meno di 100 litri di acqua blu.

A conferma di questo assunto anche le parole di Giuseppe Pulina, professore Ordinario di Zootecnica Speciale presso il Dipartimento di Agraria dell’Università di Sassari, che, in un video pubblicato sul portale Carni Sostenibili, spiega perché il conteggio che porta a questa cifra abnorme non ha alcun senso: “L’assurdo dato dei 15000 litri di acqua per un kg di carne, che ovviamente ha avuto una grande presa sul pubblico di tutti i media in questi anni, è tale perché prende in considerazione anche l’acqua piovana che ha fatto crescere i foraggi di cui si sono alimentati gli animali da allevamento. Acqua che, come viene insegnato fin dalle scuole elementari, torna per evapotraspirazione nel ciclo dell’acqua (o ciclo idrologico) e quindi non viene “consumata”.

Inoltre, per  valutare correttamente l’impronta idrica della carne bovina non si può prescindere, come sostenuto dal CREA, “dal considerare l’efficienza dell’uso dell’acqua, le condizioni pedoclimatiche del suolo e i diversi sistemi di produzione zootecniche, che vanno da estensivi, con minor uso di questa risorsa, a intensivi”.

Oltre a questi elementi, sempre secondo il Consiglio di Ricerca, va valutato il fatto che un allevamento zootecnico, in particolare di tipo estensivo, che adotta tecniche di agricoltura conservativa, oltre a produrre carne, eroga una serie di servizi definiti ecosistemici ai quali va assegnata una quota di acqua usata per l’allevamento.

Da quanto riportato finora è chiaro come i citati 15.000 litri per kg di carne bovina siano frutto di una valutazione sovrastimata, ma non solo. È arrivato il momento di rispondere alla domanda:

Modificando l’alimentazione si può quindi salvare il patrimonio idrico del pianeta?

Prendendo in considerazione alcune ricerche citate nell’articolo del CREA che confrontano diversi tipi di regimi alimentari, si evince come ad esempio non ci sono differenze nel consumo di acqua per la dieta EAT-Lancet con porzioni ridottissime di carne (meno di 100g a settimana) e la Dieta Mediterranea (300g di carne a settimana). Il dato sorprendente è che la dieta italiana con 500g di carne a settimana impatta meno sul consumo di acqua a causa di un cospicuo uso di pasta” (Cambeses-Franco et al. 2022). In un altra ricerca invece si evidenzia come, “passando da una dieta onnivora a una vegana, il risparmio idrico è solo del 14% circa, senza contare l’impatto idrico che possono avere gli integratori alimentari assunti in una dieta esclusivamente vegetale” (Zucchinelli et al. 2021).

Da qui la conclusione dei ricercatori del Consiglio per la Ricerca in Agricoltura, secondo i quali le analisi  sull’impronta idrica non sono fatte per modificare le nostre scelte alimentari. Si tratta di indicazioni che, realizzate sulla base di un calcolo corretto che tenga conto di tutte gli elementi sopra indicati, può essere utile  nelle scelte politiche, economiche, nonché nello sviluppo tecnologico nel settore agrifood di uno Stato, ma non sulla scelta di ciò che portiamo sulle nostre tavole.

 

Foto: Ludovica Nati

E-cology.it